Fargo Rock City su XL di Repubblica

Fargo Rock City su XL di Repubblica

LA VENDETTA DEL METAL
Recensione apparsa su XL di Repubblica a Settembre 2012


di Daniele Cianfriglia

Non dev'essere stato facile crescere nella profonda provincia Usa, in North Dakota, con la passione per l'hard rock più glam.
Un'odissea finita in un libro, Fargo Rock City, che ci racconta l'autore Klosterman

Ogni mattina per tutta la sua adolescenza, Chuck Klosterman, classe 1972, si è alzato dal letto nella fattoria di famiglia a Wyndmere, villaggio di 800 anime in North Dakota, con un’idea fissa in testa: il glam metal. Andava a scuola e in macchina ascoltava i Guns N’ Roses, tornava da scuola e metteva su un disco dei Kiss o dei Mötley Crüe, dei Def Leppard o dei Poison (che gli piacevano un po’ meno). Poi Chuck è diventato giornalista, una delle voci della Generazione X più ascoltate negli USA. Scrive soprattutto di sport e di musica, per testate come Spin e Esquire. Time lo ha definito come “un’autorità sulla cultura pop”.
A 27 anni ha pubblicato negli Usa un libro, Fargo Rock City (da poco uscito in Italia per Meridiano Zero), in cui mette a nudo la sua passione, la sua ossessione per la musica metallara più pop. Ma era il 2001 e il momento non era favorevole. «Ero pronto ad affrontare una delusione cocente, perché a fine anni Novanta nessuno prendeva seriamente quella musica, la sua popolarità era a zero. Poi quell’atteggiamento è cambiato, c’è stata una specie di riscoperta, perché non tutto era poi da buttare. E sono arrivati i Darkness… I Mötley Crüe hanno rivelato la loro storia in un libro (The Dirt, uscito in Italia per Tsunami, ndr), che qui è stato un bestseller. L’idea di riabbracciare la cultura metal degli anni Ottanta alla fine è tornata in auge». Ma il libro di Klosterman non è solo sul metal. Il suo sguardo da adolescente del Midwest racconta anche la provincia americana di Reagan, senza tv via cavo e fuori dalle rotte dei tour importanti. La Fargo del titolo è la stessa del capolavoro dei fratelli Coen: bufere di neve e desolazione, case distanti decine di chilometri dal centro abitato. Il nulla dell’America. «Sarebbe stato tutto diverso se fossi cresciuto in California. Ora vivo a New York e conosco persone che non hanno mai incontrato nessuno proveniente dal North Dakota: è come se dicessi che vengo dalla Russia. L’ambientazione del libro è quasi esotica». Parliamo di un posto dove le grandi conversazioni riguardano il tempo (atmosferico) e i più anziani parlano ancora della guerra in Corea e i dibattiti più accesi sono meglio le Chevrolet o le Ford? Meglio i Case-IH o i Johnn Deere (che per chi lo ignorasse, sono marche di trattori agricoli!)?
«La mia vita scorreva piuttosto isolata, ma ascoltavo i Mötley Crüe e non mi sembrava tanto male. Non ero un ragazzaccio di quelli che si metteva nei guai. Ascoltare i dischi di gente che si metteva nei guai era sufficiente. La cosa bella del libro è che lo può leggere anche chi non ama il metal perché ha molto a che fare con l’adolescenza, con le fissazioni di quel periodo della vita, con il fatto che le usi per capire te stesso». Fargo Rock City è dunque un ibrido, un po’ romanzo di formazione, un po’ narrativa autobiografica e un po’ saggio rock. «Però chi lo ha apprezzato di più, lo ha apprezzato per gli elementi di critica musicale». Chuck è un fan e non perde occasione per ricordarlo, ma riconosce con candore che «il metal possiede un elemento ridicolo». «Adoro i Kiss, e non avrebbe senso fingere che non sono buffi, perché fa parte del loro progetto». Proprio per questo suo approccio diretto, non mediato, da più parti si parla di lui come di un erede del gonzo journalism di Hunter S. Thompson e Lester Bangs. Ma lui schiva: «Se qualcuno lo pensa, bene! Grandioso! Ma io non la vedo così. Per me gonzo significa uno stile preciso. Ma io non sono cresciuto leggendo quegli autori. Vengo da una piccola scuola di villaggio. Poi sono andato in un grosso college. Mi manca quel tipo di scambio che fanno le persone colte all’università. Le mie relazioni erano al di fuori del college. Però so quali sono le mie idee sulla scrittura: voglio che sia piacevole e voglio che sia chiara».
Chuck sa bene che molta della musica che descrive e commenta nel libro è paccottiglia del decennio di plastica, che quei dischi erano costruiti con due singoli potenti, una power ballade e 5-6 pezzi di riempimento. Non per questo va disprezzata tout court, fosse anche solo per il fatto che milioni di ragazzi l’hanno acquistata e per alcuni di loro (per lui) è stata una ragione di vita per tutta l’adolescenza. Eppure c’è stato un momento, prima che i Metallica entrassero in classifica e Ozzy Osbourne interpretasse se stesso in un reality, in cui il metal faceva paura. Nel 1985 Tripper gore, moglie del futuro vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, lanciò una furiosa campagna di sensibilizzazione contro i testi “osceni” delle band metal. «Era sinceramente sconvolta da una canzone degli W.A.S.P., Animal (Fuck Like A Beast), che non era stata pubblicata in America. Un lato B impossibile da trovare. Io stesso sono riuscito ad ascoltarla solo dopo anni e a malapena sapevo della sua esistenza. Riuscì a trasformare gli W.A.S.P. in una band estrema». È da lì che arrivano gli adesivi che avvisano della presenza di “liriche esplicite”. «Se non c’era l’adesivo il disco non lo volevi. Era come se ti dicessero: “questa è una band metal!”» Malgrado la pessima fama del metal (sessista, filo satanista, istigatore di tendenze suicide e del consumo di stupefacenti e alcol), con una buona dose di ironia Chuck sostiene che in gran parte si trattava di un gioco delle parti. A dimostrazione di ciò, un paio di anni fa Biff Byford dei Saxon fu proposto come “ambasciatore di pace” in una campagna per il riconoscimento del metal come “religione” e ancora oggi si susseguono dibattiti accademici sulla “gentilezza” degli headbangers. Il metal è una costruzione spettacolare, più che un fenomeno sovversivo: «Il pop metal non funzionava come il punk e la new wave, capaci di attrarre gli outsider, i diversi, gli esclusi con il messaggio “Non c’è niente di male a essere outsider”. Il metal diceva all’outsider “Tu non sei outsider, sei un tipo cool, fai parte di questa grande cultura”. E i ragazzi si sentivano normali. Era il mainstream, alla fine».
Ma insomma, per parafrasare il titolo di un’altra raccolta di saggi di Chuck, Eating The Dinosaur (inedito in Italia), chi ha ucciso i dinosauri metal anni Ottanta? «Penso che quando il grunge è diventato popolare, le “nuove” band non sembrassero poi troppo differenti alle orecchie dell’ascoltatore. Ma se leggi le recensioni di quel periodo, i critici avevano iniziato a promuovere il grunge criticando il passato. Era come se oggi dicessimo che un gruppo è buono perché gli Strokes ormai fanno schifo». Musicalmente Nirvana e Guns N’ Roses non erano poi molto diversi? «Il modo di suonare la chitarra era simile, il modo in cui è stato registrato Nevermind non è troppo diverso da come registravano i Mötley Crüe». La differenza l’ha fatta la televisione: «Era Mtv a controllare la musica in America. Qualunque cosa passassero diventava un successo. È stato così dal 1985 al 1995. Mtv decideva quali erano i dischi da avere… Forse sarebbe stato diverso se Kurt Cobain avesse detto “Ok mi piacciono i Guns N’ Roses”. Avrebbe creato un terreno condiviso». E il rap, non ha avuto un ruolo nella mattanza? «Non sono d’accordo. Potremmo dire che il rap ha fregato il rock in sé, ma non il metal. Quando ero al liceo, in North Dakota, ascoltavo i Public Enemy. Il rap aveva un sound quasi metal… I Beastie Boys avevano delle qualità metal. E poi in un certo senso il rap ci aveva ridato gli Aerosmith!».
Oggi gran parte delle band glam metal, dopo gli anni bui di cui parla Klosterman, sono tornate on the road, nei Gods of Metal e tra gli adolescenti di qualunque età in tutto il mondo. Ci sono i Black Sabbath al completo con Tony Iommi, i Van Halen con David Lee Roth, i Mötley Crüe. Anche i Darkness si sono riformati. E chissà che sull’onda del revival non arrivi infine al cinema un film tratto da Fargo Rock City, anche se Klosterman non ci crede più: «Il tipo della band Hold Steady (Craig Finn, ndr) aveva scritto una sceneggiatura. Piuttosto divertente. Ma non credo che diventerà mai un film. Ci hanno lavorato per tre anni, ma è morta lì. Le cose vanno così. La gente acquista libri e salta fuori qualcuno che vuole farci un film. È successo con tutti i libri che ho scritto, ma alla fine non se ne è mai fatto niente». Invece al cinema prima dell’estate è uscito Rock Of Ages, riadattamento dell’omonimo musical di Broadway di qualche anno fa. La colonna sonora di “Fargo Rock City – Il film” sarebbe stata la stessa.


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Pubblicato: 13.02.2013
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